Nel liquidare le spese legali a favore del dipendente finito a processo, la Pa deve attenersi alla valutazione di congruità espressa dall’avvocatura dello Stato, valutazione che guiderà anche il giudice dell’eventuale ricorso. Nessun ruolo in questa partita può giocare il parere dell’Ordine forense competente, poiché qui non si controverte sul compenso professionale ma bensì su un rimborso di spese legali già anticipate.”
Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza 13861/15 depositata ieri, fanno chiarezza sui criteri per tenere indenni i dipendenti pubblici sottoposti a procedimento penale – e dal quale siano ovviamente usciti con archiviazione o assoluzione nel merito.
La questione era stata sollevata da un sottufficiale di Marina siciliano, che è stato sottoposto negli anni ’90 a un procedimento penale nella sua qualità e ha sostenuto spese legali delle quali aveva chiesto il rimborso alla Pubblica Amministrazione. Quest’ultima, acquisito il parere dell’avvocatura dello stato, gliene ha rimborsate solo un terzo. Il rimborso era stato però decurtato esattamente di due terzi (circa 20 mila euro attuali) dall’avvocatura erariale, cui si era rivolta l’amministrazione della Marina prima della liquidazione, “taglio” che aveva poi superato anche due gradi di giudizio di merito davanti al giudice ordinario. Tuttavia la stessa avvocatura dello Stato aveva eccepito la competenza del tribunale ordinario, eccezione portata al grado di legittimità come controricorso incidentale – subordinato – rispetto all’impugnazione del militare.
La Terza civile aveva infine rimesso il fascicolo alle Sezioni Unite che ieri hanno sciolto il solo quesito principale respingendo tutte le richieste del militare. A cominciare da un sospetto (generico) di incostituzionalità sollevato dal ricorrente circa la mancanza di un corrispondente parere – obbligatorio – di congruità dei Consigli dell’ordine nelle parcelle verso i privati. Per le Sezioni unite l’equiparazione è arbitraria (rimborso da una parte, parcella dall’altra), e anche la lamentazione circa una presunta diminutiodell’esercizio di difesa (articolo 24 della Costituzione) è fuori luogo, considerato tra l’altro che qui i parametri della Carta che vengono in gioco sono semmai quelli legati alla «buona amministrazione» (art. 81). In sostanza, argomenta la Corte, le esigenze di finanza pubblica «impongono di non far carico all’erario di oneri eccedenti quanto è necessario, e al contempo sufficiente, per soddisfare gli interessi generali e i doveri giuridici che presidiano l’istituto del rimborso spese». Pertanto, se il vaglio del rimborso cadesse a carico dei (soli) consigli forensi ciò «toglierebbe qualsiasi rilevanza pubblicistica alla spesa e ai relativi doveri di governo di essa», equiparando di fatto «il debito del cliente verso il professionista e quello di protezione del dipendente, che è a carico dello Stato». Equiparazione improponibile, perchè tra l’altro renderebbe il cliente “arbitro” della spesa pubblica attraverso scelte di difesa personali talvolta anche ultronee. Proprio per questo «prudentemente il legislatore ha previsto che (tali oneri, ndr) siano vagliati, sotto il profilo della congruità, dall’avvocatura dello Stato». Congruità, appunto, che significa bilanciare il diritto di difesa del dipendente della Pa con il ragionevole contenimento della spesa pubblica per avvocati difensori privati.
In questo senso il criterio dello «strettamente necessario» riferito alle spese di difesa deve essere inteso come «contemperamento» e bilanciamento tra principi costituzionali in parte confliggenti.
LA SEGRETERIA NAZIONALE