La resistenza al pubblico ufficiale e persino le lesioni provocate ad un’agente non costituiscono reato se sono il risultato di una reazione ad un atto percepito come arbitrario. La Cassazione, con un argomentata sentenza ( Corte di cassazione – Sezione VI – Sentenza 29 gennaio 2019 n. 4457), applica la scriminante, in forma putativa prevista dall’articolo 393-bis sulle cause di non punibilità, che scattano quando un pubblico ufficiale va oltre le sue prerogative. E lo fa anche se la convinzione di dover reagire ad un sopruso potrebbe essere, come nel caso esaminato, frutto di un’errata percezione del fatto. I giudici prendono così le distanza dalla giurisprudenza divergente sul punto, bollandola come datata e non in linea con le raccomandazioni della Corte costituzionale, che ha invitato a cogliere i mutamenti dei rapporti tra cittadini e autorità.
I giudici della sesta sezione partono dal Codice Zanardelli e dal Codice Rocco, che aveva evitato di disciplinare la fattispecie in questione, con la convinzione che si potesse applicare, la scriminante della legittima difesa. Una lettura che per la Consulta, come per la Cassazione, poteva essere il risultato di una fiducia nell’infallibilità degli agenti della pubblica autorità. Errore in cui non cade la Suprema corte nell’esaminare il ricorso contro la condanna per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni aggravate, a carico di un cittadino italiano fermato a più riprese sul treno e dopo essere arrivato a destinazione, per il riconoscimento e bloccato per essere condotto al commissariato.
L’uomo era destinatario di un atto di “rintraccio” disposto dal Pm, per essere sentito come persona informata sui fatti proprio in merito ad una denuncia che aveva presentato nell’ambito di un procedimento in cui era indagato per calunnia. Ad avviso della Cassazione i giudici di merito avevano sbagliato a basare la loro condanna sulla considerazione che quello che era apparso un atto arbitrario degli agenti, era in realtà legittimo.
Per la Suprema corte, i fatti come accaduti potevano essere percepiti come arbitrari. Una insistente e persecutoria attività di identificazione, con la sola motivazione della notifica di un atto, era sembrata pretestuosa al ricorrente, già conosciuto dagli agenti, e collegata a denunce che lui aveva fatto nei confronti di magistrati locali e dello stesso commissariato del posto. Ragionevolmente dunque l’imputato si era sentito vittima di una vessazione. Di qui il riconoscimento della scusabilità putativa anche per quello che appariva l’ulteriore sopruso dell’accompagnamento coatto. L’intento di difendere la libertà personale scrimina anche le lesioni provocate ad un agente. La Cassazione annulla senza rinvio perché il fatto non costituisce reato, con una sentenza che, ad avviso dei giudici, “riequilibra” alla luce delle indicazioni della Consulta, i rapporti Stato cittadino, come vanno intesi, in quest’epoca e in un Paese democratico.
Corte di cassazione – Sezione VI – Sentenza 29 gennaio 2019 n. 4457
Patrizia MAcciocchi – SOLE 24 ORE