L’elemento distintivo del delitto di rapina rispetto a quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone risiede nell’elemento soggettivo, perché nell’un caso l’autore agisce al fine di procurare a sé o ad altri un profitto ingiusto, ben sapendo che quanto pretende non gli spetta e non è giuridicamente azionabile, nell’altro agisce nella ragionevole opinione di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli spetti. Peraltro, nello schema tipico del meno grave reato di esercizio arbitrario non rientra certamente una condotta che si sostanzi nella violenta esecuzione presso terzi delle proprie ragioni creditorie. Ciò perché, anche in presenza di una ragionevole opinione di esercitare un proprio diritto, allorché la violenza o la minaccia si estrinsecano in forme di tale forza intimidatoria che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la condotta risulta finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia, integrandosi quindi gli estremi del reato di rapina. Un ragionamento di diritto complesso espresso dalla sezione VI penale della Cassazione con la sentenza n. 23678 del 2015. Gli orientamenti della giurisprudenza – In tema, peraltro, si veda sezione II, 29 maggio 2014, La Puma, pur relativa ai rapporti tra l’esercizio arbitrario e l’estorsione, secondo cui qualora il soggetto abbia agito con l’intento di esercitare un preteso diritto, tutelabile davanti all’autorità giudiziaria, è ravvisabile il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (articolo 393 del Cp ), senza che l’intensità e/o la gravità della violenza o della minaccia utilizzata possano indurre a qualificare il fatto a titolo di estorsione (articolo 629 del Cp). In tale occasione, la Corte ha sviluppato il proprio ragionamento ribadendo il principio, pacifico, secondo cui il reato di estorsione si differenzia da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla persona non tanto per la materialità del fatto che può essere identica, quanto per l’elemento intenzionale, atteso che nell’estorsione l’agente mira a conseguire un ingiusto profitto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto, mentre nell’esercizio arbitrario egli agisce al fine di esercitare un suo preteso diritto con la convinzione che quanto vuole gli compete. L’elemento psicologico – Il distinguo è cioè basato sull’elemento psicologico, laddove nell’estorsione l’agente persegue il conseguimento di un profitto, pur nella consapevolezza di non averne diritto, mentre nell’esercizio arbitrario l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria (di recente, tra le tante, sezione II, 29 maggio 2012, Di Vuono e altro). L’indirizzo della decisione – Peraltro, per quanto qui interessa, nella sentenza La Puma, la Cassazione, recependo altre recenti innovative prese di posizione (sezione II, 4 dicembre 2013, Fusco e altro; nonché, sezione II, 1° ottobre 2013, Traettino), ha anche preso consapevolmente le distanze da quell’altro orientamento, finora pacifico (e qui seguito dalla sentenza in rassegna), secondo cui, a prescindere dalla finalità perseguita, quando la minaccia o la violenza utilizzata si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio preteso diritto, allora la coartazione dell’altrui volontà assume ex se i caratteri dell’ingiustizia, con la conseguenza che, in situazioni del genere, anche la minaccia dell’esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una volontà ricattatoria, che fanno sfociare l’azione in mera condotta estorsiva. Cass. 2378-2015 – differenza trea estorsione e esercizio arbitrario delle proprie ragioni FONTE: IL SOLE 24 ORE