Le dichiarazioni spontanee anche se rese in assenza del difensore e senza l’avviso di poter esercitare il diritto al silenzio sono utilizzabili nelle fase procedimentale, nella misura in cui emerge con chiarezza che l’indagato abbia scelto di renderle liberamente, senza alcuna coercizione o sollecitazione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 14320 del 28 marzo 2018, bocciando il ricorso di un uomo, condannato a due anni di reclusione per ricettazione, che aveva invece sostenuto l’inutilizzabilità delle dichiarazione del coimputato nell’immediatezza del fatto perché rilasciate in assenza del difensore. La Corte chiarisce che tali dichiarazioni hanno un perimetro di utilizzabilità circoscritto alla fase procedimentale e dunque all’incidente cautelare, ma anche – come nel caso specifico – ai riti a prova contratta (senza avere alcuna efficacia probatoria in dibattimento).
Una simile disciplina, prosegue la decisione, è compatibile con le indicazioni contenute nella direttiva 2012/13/UE in materia di diritti di informazione dell’indagato. La normativa europea infatti, prosegue la decisione, si limita ad indicare la necessità di una «tempestiva informazione, lasciando agli Stati membri un margine di discrezionalità nell’apprezzamento della richiesta “tempestività”». E il legislatore italiano ha ritenuto di individuare il momento in cui è necessario fornire le informazioni di garanzia «in quelli dell’applicazione delle misure cautelari e del compimento di atti ai quali il difensore ha diritto di assistere; ha ritenuto invece di lasciare all’indagato la possibilità di entrare in contatto con la polizia giudiziaria procedente in modo spontaneo e deformalizzato nel corso di tutta la attività processuale». Si tratta di una scelta, continua la Corte, che trova la sua giustificazione nel fatto che «le dichiarazioni spontanee non sono funzionali a raccogliere elementi di prova, ma piuttosto a consentire all’indagato di interagire con la polizia giudiziaria in qualunque momento egli lo ritenga, esercitando un suo diritto personalissimo».
Passando poi al rito contratto, spiega la Cassazione, esso si risolve «in una espressa e personalissima rinuncia dell’imputato al diritto al contraddittorio, sicché diventano utilizzabili tutti gli atti formati nel corso delle indagini preliminari e, dunque anche le dichiarazioni spontanee, destinate altrimenti a perdere efficacia in caso di progressione processuale ordinaria». Ma tale rinuncia al contraddittorio «non è in contrasto con il diritto tutelato dall’art. 6 della Convenzione Edu tenuto conto della ratio decidendi che orienta una serie di pronunce della Corte europea». Ed in particolare la sentenza della Grande Camera Scoppola v. Italia del 17 settembre 2009, in cui la Corte europea ha affermato che «né il testo né lo spirito dell’art. 6 della convenzione Edu impediscono che una persona vi rinunci spontaneamente in maniera espressa o tacita». Tuttavia tale rinuncia deve essere stabilita «in maniera non equivoca ed essere accompagnata da un minimo di garanzie corrispondenti alla sua importanza».
Per cui, nel caso di specie, conclude la sentenza, contrariamente a quanto dedotto, «la rinuncia al contraddittorio effettuata attraverso la libera e consapevole scelta di definire il processo con il rito abbreviato, sulla base di fonti di prova raccolte unilateralmente dalla pubblica accusa non contrasta con il diritto convenzionale, ma anzi si presenta coerente con i principi reiteratamente espressi dalla Corte di Strasburgo in materia».
Corte di cassazione – Sentenza 28 marzo 2018 n. 14320
FONTE SOLE 24 ORE