Non sussiste il demansionamento laddove vi sia una riorganizzazione che comporta la riduzione quantitativa delle attività assegnate ad un lavoratore, mantenendo inalterato il livello qualitativo. Così ha affermato il Tar Lazio con la sentenza n. 4245/2019
Il fatto
Un medico veterinario, entrato in servizio come Brigadiere Generale (avente tale qualifica già al tempo dell’entrata in vigore del Dlgs 490/1997 ) si doleva della circostanza che, a distanza di diversi anni, prestava servizio con il medesimo grado a dispetto di altri Ufficiali Medici che si sarebbero invece visti attribuire il grado superiore, pur essendo, fino al 1997, meno anziani e titolati.
Ciò sarebbe addebitabile alla condotta dell’Amministrazione che avrebbe precluso ab origine opportunità e sviluppi di carriera agli Ufficiali Veterinari, in quanto avrebbe adottato una serie di atti riorganizzativi che, fondamentalmente, avrebbero svuotato le mansioni allo stesso effettivamente spettanti.
In altre parole, per effetto del Dlgs 490/1997, gli Ufficiali Veterinari avrebbero subito, anche ai fini dell’avanzamento, un demansionamento ed una discriminazione in termini di minori chances di carriera ed incarichi per gli Ufficiali Veterinari rispetto agli Ufficiali Medici,con assegnazione di funzioni dirigenziali minori rispetto a questi ultimi.
I principi in materia
Il demansionamento consiste nell’attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle della sua qualifica di appartenenza e tale condotta, qualora provochi danni morali e professionali, dà diritto al risarcimento indipendentemente dalla ulteriore sussistenza del mobbing.
L’illecito di demansionamento non è ravvisabile in qualsiasi inadempimento alle obbligazioni datoriali bensì nell’effettiva perdita delle mansioni svolte, con il progressivo svuotamento dei compiti più qualificanti appartenenti alla posizione professionale del lavoratore, e con il conseguente depauperamento del suo patrimonio professionale e della sua dignità lavorativa.
In particolare, nel pubblico impiego, il demansionamento è stato ravvisato nei casi di attribuzione di funzioni inferiori non rientranti nella qualifica di appartenenza; è stato escluso, invece, quando il pubblico dipendente sia dismesso dalle funzioni sino a quel momento svolte ed incaricato di altre mansioni comunque rientranti nella qualifica funzionale di inquadramento.
Dunque, si deve escludere la sussistenza di alcun demansionamento del dipendete pubblico quando, in ogni caso, anche a seguito di riorganizzazione, gli viene attribuito un incarico dirigenziale, seppur con minori competenze di area rispetto al precedente.
Il risarcimento danni da demansionamento
Il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.
Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria: non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore la prova del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale.
In altri termini, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno derivante da demansionamento e dequalificazione non sorge in ogni caso di inadempimento datoriale, ma presuppone l’esistenza di un pregiudizio di natura oggettiva, provocato su reddito, abitudini di vita e assetti relazionali, che deve essere provato dal lavoratore ai fini del soddisfacimento della propria pretesa.
articolo di Gianni La Banca – SOLE 24 ORE