“Il fatto che un’espressione offensiva sia entrata nel linguaggio comune non significa che la stessa perda il suo carattere oltraggioso e lesivo del prestigio del pubblico ufficiale, tanto più “quando è pronunciata in circostanze tali che, esulando dai limiti della critica o della protesta garbata, trasmodi in aperto vilipendio della persona destinataria e della pubblica amministrazione da essa rappresentata”.
Così la Corte di Appello, con la sentenza n. 6101 depositata il 10 febbraio 2015 ha annullato l’assoluzione di un uomo per il reato di cui all’art. 341-bis c.p., per aver accolto in malo modo, all’interno di un bar e in presenza di più persone, due rappresentanti dell’Arma in servizio di pattuglia, inveendo contro di loro in maniera volgare e aggressiva.
Sovvertendo completamente la sentenza di assoluzione del Gip, la Corte ha ritenuto fondato il ricorso del procuratore della Repubblica giacchè “le espressioni profferite dall’imputato, con riferimento al contesto pubblico nell’ambito del quale erano state pronunciate unite alle altre circostanze di fatto, avevano certamente offeso sia l’onore che il decoro dei Carabinieri operanti”, a prescindere dal fatto che le stesse siano usate frequentemente, in quanto conservano il loro intrinseco tenore espressivo di disprezzo (e dunque di antigiuridicità) per l’attività svolta dai pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni.
Indubbia, inoltre, per la sesta sezione penale è la sussistenza della coscienza e della volontà di arrecare detta offesa, sufficiente ad integrare il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale il quale non richiede il dolo specifico ma soltanto la “consapevolezza, nel soggetto attivo, del significato oltraggioso delle parole usate”.
Tale consapevolezza, ha concluso la S.C. annullando senza rinvio la sentenza, “è in re ipsa quando l’espressione, pur se entrata in uso corrente, non ha perso il suo significato di disprezzo dell’operato altrui”.